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E se il mondo non girasse più intorno all’America?

Continuiamo a guardare verso Washington come se fosse l’unico faro possibile. Ma se quel faro si fosse spento?

Ho letto un articolo su The Guardian che pone una domanda semplice ma scomoda: siamo capaci di immaginare un mondo che non ruoti più intorno agli Stati Uniti? Forse è arrivato il momento di smettere di aspettare che ci dicano cosa fare. E iniziare a pensarlo da soli.

L’articolo in questione si intitola: “It is difficult to imagine a post-American world. But imagine it we must(È difficile immaginare un mondo post-Americano. Ma dobbiamo farlo), scritto da Nesrine Malik.

Malik parte da un’idea semplice ma potente: siamo talmente abituati a considerare gli Stati Uniti il punto di riferimento del mondo – nel bene e nel male – che pensare a un mondo senza quella centralità ci sembra quasi impossibile.

Eppure è proprio questo lo sforzo che dovremmo iniziare a fare, perché quel mondo “americanocentrico” sta crollando sotto i nostri occhi. E far finta di niente non è più un’opzione.

Non si tratta solo di geopolitica, eserciti o alleanze. Il punto è più profondo: riguarda i simboli, la cultura, i modi di vivere.

L’America, volenti o nolenti, è stata per decenni il nostro orizzonte: ci ha dato le guerre, certo, ma anche Hollywood, la Silicon Valley, le università, le promesse di libertà. E oggi, mentre quel faro si affievolisce – tra diritti violati, derive autoritarie e deportazioni di massa – ci scopriamo spaesati, incapaci di immaginare un ordine alternativo. Insomma, quello che per generazioni è stato per molti il sogno americano, oggi comincia a sembrare sempre più un incubo. E forse è arrivato il momento di svegliarsi.

Malik mette a nudo una contraddizione che molti di noi sentono da tempo: chiediamo agli Stati Uniti di fare da “poliziotto buono” del mondo – li invochiamo in Ucraina, a Gaza – e poi ci scandalizziamo quando agiscono solo per i propri interessi. È come chiedere a un impero di agire come un’organizzazione umanitaria. Ma gli Stati Uniti non sono un ente di beneficenza: sono una potenza geopolitica, con una strategia chiara e l'obiettivo di tutelare se stessi. Sempre.

Guardiamo a Gaza. Mentre il Congresso continua a inviare miliardi in aiuti militari a Israele, tanti aspettano – o forse si illudono – quella telefonata decisiva da Washington per fermare Netanyahu. Ma quella telefonata non arriva mai.

E sull’Ucraina? Trump, tra ambiguità e silenzi, sta gradualmente lasciando Zelensky da solo, a fronteggiare un futuro incerto.

Il messaggio è chiaro: l’America si muove solo se le conviene.

Eppure, nel frattempo, continua a presentarsi come il garante dell’ordine mondiale. E noi europei – in particolare l’Italia – continuiamo a comportarci come se avessimo ancora bisogno del suo benestare per ogni passo.

Questo atteggiamento, tra dipendenza e deferenza, lo ritroviamo anche a casa nostra. Un esempio concreto? La visita della Premier Giorgia Meloni, prevista per giovedì 17 aprile: un incontro simbolico e strategico con Donald Trump, che proprio in questi giorni si prepara a “celebrare” i primi 100 giorni del suo secondo mandato alla Casa Bianca. Da una parte, un presidente che torna a minacciare dazi contro l’Europa. Dall’altra, l’Italia che si affretta a presentarsi con un impegno solenne: portare la spesa per la Difesa al fatidico 2% del PIL. Un gesto definito “politico”, sì – ma dalle implicazioni molto concrete. Parliamo di 8 miliardi di euro in più per la Difesa, con un braccio di ferro interno tra chi vuole investimenti reali e chi preferisce far quadrare i conti con un po’ di creatività contabile. E intanto, la Premier ha chiesto ai suoi ministri di parlarne il meno possibile. Perché?  Perché sa bene che l’opinione pubblica è tutt’altro che entusiasta.

E a questo punto la domanda è inevitabile: perché tutta questa fretta di riallinearsi con Washington? Per garantirsi un posto al tavolo con Trump, ora che è tornato al potere? O, più profondamente, perché non sappiamo – o non osiamo – immaginare una politica estera che non abbia l’America come perno?

Ed è qui che Malik alza il tiro. Il punto non è solo criticare gli Stati Uniti, né auspicare che qualcun altro ne prenda il posto. La sua proposta è più radicale – e, proprio per questo, più interessante: smettere di pensare che debba per forza esserci un centro, un leader, un potere unico che tenga insieme il mondo.

L’idea che ci serva sempre un “grande” a decidere per tutti va ripensata. È difficile, certo – siamo cresciuti con questa narrazione. Ma ormai non regge più.

E poi c'è una verità scomoda che non possiamo più ignorare: anche chi ha sempre guardato con scetticismo agli Stati Uniti ha continuato a riporre fiducia nelle loro istituzioni, quelle che una volta erano simbolo di democrazia e stabilità. La stampa libera, i tribunali indipendenti, il sistema di “check and balance” che garantiva un equilibrio di poteri. Ma oggi, sotto la leadership di Trump, questi pilastri sono sempre più fragili e incrinati. L'indipendenza della giustizia è messa in discussione, la verità viene distorta a piacimento, e i diritti fondamentali sono erosi giorno dopo giorno. In un'America che sembra scivolare verso un autoritarismo travestito da populismo, la domanda diventa inevitabile: se nemmeno gli Stati Uniti, la cosiddetta roccaforte della democrazia, riescono più a mantenere la stabilità, chi può farlo?

Malik non dà risposte, ma lancia una sfida chiara: immaginare un mondo più condiviso, meno centrato, più giusto. Forse sarà più caotico, sì. Ma forse sarà anche più libero.

E noi europei dobbiamo smetterla di vivere perennemente sotto l’ombrello americano, aspettando che qualcuno ci dica cosa fare. È ora di costruire una visione nostra, più autonoma, più coraggiosa.

Un mondo senza l’America al centro fa paura. Ma forse è proprio quel tipo di mondo – più imperfetto, più incerto, ma anche più libero – che ci serve per crescere davvero.

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